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GAZA NELLE VENE

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C’è qualcosa di più insopportabile del male, è l’assuefazione al male.
Nel cuore pulsante del nostro tempo, c’è una terra che viene annientata.
Gaza brucia. Da mesi.
È un fuoco visibile dai satelliti, dalle dirette, dai video che ancora riescono a trapelare tra un blackout e l’altro. Tra un giornalista abbattuto e l’altro.
Quartieri interi cancellati in brevi istanti. Famiglie intere spazzate via in brevi istanti, mentre cenavano, dormivano, pregavano, piangevano. Brevi istanti spazzati via da una deflagrazione di livello bunker-buster – concepita per penetrare strati di cemento armato e finita tra le braccia di un innocente, che non sente arrivare neppure il sibilo in lontananza. Che non ha neppure il tempo di sgranare gli occhi dal terrore prima di non esistere più nella frazione d’istante successiva. Prima di scomparire.
L’onda d’urto supersonica giunge prima del suono.
L’onda d’urto primaria disintegra istantaneamente il corpo. Le molecole d’aria diventano un’arma. Investono la massa corporea con una forza tale da fratturare ogni osso, rompere la colonna vertebrale, far collassare i polmoni e spappolare il cervello dentro il cranio.
Frantumare le ossa. Spappolare il cervello.
Polmoni che collassano. Le membrane alveolari si lacerano provocando emorragie interne. Il torace implode. E se la vittima non muore all’istante, l’effetto è l’annegamento interno: il soggetto soffoca nel proprio sangue.
I timpani esplodono, il sistema nervoso subisce un trauma massivo che causa arresto cardiaco immediato.
I tessuti molli vengono strappati via, separati dalla struttura ossea come carta immersa in benzina. I vestiti prendono fuoco, la pelle si scioglie. La pelle si scioglie prima ancora di essere scaraventati via dall’onda d’urto.
La pelle. I muscoli, gli organi esposti iniziano a carbonizzarsi in millisecondi.
Il corpo subisce una vaporizzazione istantanea: l’acqua contenuta nelle cellule evapora, facendo esplodere i tessuti dall’interno.
Non rimane un corpo. Non ci sono arti attaccati al torso, non ci sono volti riconoscibili. Gli elementi organici si fondono al cemento, al vetro, al metallo circostante.
Gli esperti militari parlano di vapourised kill zone: zona in cui le vittime non sono recuperabili perché fisicamente annientate. Non corpi, solo atomi.
La temperatura nel punto d’impatto supera i 2.500 °C. Il calore fonde i materiali. Il vetro si liquefa a 1.400 °C. Alcuni metalli (come l’alluminio, presente in infissi, auto, elettrodomestici) fondono attorno ai 650 °C. Il corpo umano colpito in vicinanza di una massa metallica o una parete di vetro, si fonde con essi. Il calore e la pressione causano una coalescenza istantanea: frammenti di carne e sangue si incrostano o si saldano letteralmente alle superfici.
Depositi organici inceneriti.
Dopo l’esplosione, restano tracce biologiche (sangue coagulato, capelli bruciati, pezzi di ossa) fuse nelle crepe del cemento, incollate sul metallo di automobili contorte, vetrificate sui muri.
Il corpo non subisce, viene annientato.
L’ordigno libera centinaia di schegge metalliche che schizzano via a velocità ipersonica (shrapnel). Trafiggono organi vitali, cuore, fegato, cervello. Recidono arti, penetrano il cranio. Il corpo viene smembrato. Arti o teste staccati dal busto. L’energia cinetica dell’esplosione scaraventa il corpo a decine di metri, contro muri, veicoli, macerie.
E se anche sopravvive all’onda d’urto, l’impatto secondario provoca fratture multiple, traumi cranici mortali, spappolamento degli organi interni.
Vaporizzato, spezzato, bruciato, disintegrato.
Non resta nulla da medicare.
Spesso non resta nulla da seppellire.
La bomba esplode. Esplode con una potenza equivalente a 1000 chili di TNT. Crea un cratere largo fino a 15 metri e profondo 6. Cancella una piazza, un parco, o un incrocio, con uno schiocco di dita. Il boato si sente fino a 15 km di distanza. I vetri si frantumano nel raggio di 2 km dal punto zero. Su un quartiere residenziale, non resta nulla da estrarre. Calcinacci, carne incenerita e vuoto.
Non c’è tempo nemmeno per registrare il suono.
Petto imploso. Sangue che esce dagli occhi.
L’aria si trasforma in lama.
Poi arriva il fuoco. La pelle. La pelle si scioglie. I vestiti ardono. Le mani si fondono ai corpi che stavano stringendo.
Corpi lanciati come oggetti. Corpi che non hanno più forma.
Non resta nulla. Nulla da ricomporre.
Nulla. Nulla da seppellire.
Polvere e carne fusa.
Il vuoto.
I palazzi si sgretolano come sabbia. Crollano su corpi rannicchiati nei seminterrati, su bambini che dormono sotto i letti, su genitori che fanno da scudo col proprio corpo.
Le finestre esplodono. I tetti si accartocciano. Le scale crollano.
Ogni giorno. Ogni ora.
Si vedono in diretta, si sentono in diretta, le madri correre con neonati stretti al petto.
Corpi estratti con le mani nude. Braccia che spuntano da sotto le macerie, dita livide che non si muovono più. Grida. Boati. Sirene. Il ronzio dei droni.
Richieste d’aiuto soffocate. E poi quello che resta quando tutto è stato raso al suolo. Silenzio.
È uno sterminio metodico.
Sotto gli occhi del mondo.
Un genocidio in 4K.
Le fiamme divorano Gaza. Strada dopo strada. Vita dopo vita. Palazzi ridotti in cenere, le case esplodono, le finestre si trasformano in bocche di fuoco. I colpi d’artiglieria si sentono in streaming, in diretta, quando la connessione regge.
Si vedono madri che fuggono cercando salvezza, hanno smesso di implorare il cielo.
Corpi trascinati per i vicoli. Altre braccia che sporgono da sotto le macerie.
E l’artiglieria e l’aviazione non si fermano. Ogni colpo è una conferma di sterminio: si sente il fischio del proiettile, poi lo schianto, poi le grida – spezzate, distorte dal microfono del telefono ancora acceso.
Madri con volti ustionati stringono neonati in coperte fradice di piscio e cenere. Bambini sbucano nudi e tremanti da un cratere, svoltano l’angolo, fuggendo, verso la piazza dove li aspetta un altro missile.
Le piazze sono lastricate di sangue rappreso.
Viscere, denti, scarpe bruciate. Corpi fatti a pezzi da esplosioni a grappolo, membra sparse sui balconi. Un vecchio muore abbracciato al cadavere della figlia. Una bambina senza gambe piange in arabo, e nessuno la sente.
I cani randagi trascinano resti umani nei cortili.
La terra è impastata di sangue. Come un colpo alla nuca. Poi un altro. Poi un altro ancora.
E i carnefici? Sono lì.
Li vediamo. Sono noti.
Sorridono nelle stories.
Si fanno i selfie mentre svaligiano le case evacuate, indossano la biancheria intima femminile, deridono le vittime, fanno detonare interi quartieri, coi fucili puntati sui mucchi di cadaveri all’orizzonte. Ci vogliono edificare sopra la “terra promessa”.
Hanno nomi, profili, badge militari, parlano in diretta. In conferenza stampa.
Parlano di “zone nemiche”, “danni collaterali”, “guerra contro il terrore”.
Dichiarano: “Non c’è nessun civile innocente a Gaza”.
Distribuiscono video propagandistici. Mostrano bombe intelligenti cadere su mappe colorate. Poi cadono su mercati. Sulle cucine. Sulle tende. Sulle altalene, sui girotondi. Cadono ovunque. Sullo sguardo inerme di chi muore e di chi, per questa volta, l’ha scampata.
Bombe da 900 kg (MK-84) in aree densamente popolate.
Usano munizioni al fosforo bianco. Ammesse, documentate, proibite.
Tutto è documentato. E in diretta. E ora c’è persino l’annuncio ufficiale per tutti coloro che fino ad oggi hanno fatto finta di non vedere, di dire che “ma no!”, “genocidio” non è la parola giusta, “pulizia etnica” forse è un po’ forte, e poi “comunque Hamas”, in fondo, un po’, se la sono cercata.
Ora invece è di dominio pubblico: il piano è preciso, metodico, dichiarato: svuotare Gaza, ripulire la zona. Lo chiamano “trasferimento”, “evacuazione”, “prendere il controllo di Gaza”, “far di Gaza la Riviera del Medio-Oriente”, ma è sterminio.
E noi lo vediamo.
I droni inquadrano le detonazioni, gli occhi delle vittime.
I dati scorrono: numero di edifici colpiti, di cadaveri identificati, di bambini “scomparsi”, di famiglie polverizzate.
Pioggia di bombe indiscriminate su tutto e tutti, senza distinzione, persino sui loro stessi ostaggi. Persino sul Creatore, quando sarà necessario.
E i volti, i volti dei bambini che tremano, i volti dilaniati – per chi vuole vedere ci sono –, nei frame sgranati dei sopravvissuti che hanno la forza di testimoniare, di filmare.
C’è un ragazzino con una kefiah al collo che chiede aiuto. Il sangue scorre a fiotti dalla ferita sulla giugulare. La kefiah è un grumo di sangue. C’è una vecchia trascinata giù per una scala, il cranio aperto, sanguinante. C’è un silenzio che segue un’esplosione, e poi un pianto, e poi più nulla. E poi rivoli di sangue.
E noi?
Noi registriamo.
Commentiamo.
Mettiamo like. Ci indigniamo con un’emoji.
I campi profughi, le macerie, la terra in polvere, sono visibili su Google Maps.
I sopravvissuti parlano in streaming, ma le loro dirette hanno meno visualizzazioni dei tutorial di cucina.
I satelliti guardano. I droni registrano. I giornalisti contano. Documentari su occupazione e apartheid vincono gli Oscar. Qualcuno osa rompere l’omertà, per essere solennemente insultato da orde genocide.
E il mondo guarda e passa.
Gaza è la gabbia.
Il campo.
La prova generale della disumanizzazione in diretta.
Uomini, donne, bambini. Arsi, sepolti, dilaniati sotto le macerie. Nei campi profughi bombardati, nelle scuole bombardate, arti strappati dal corpo, negli ospedali bombardati.
C’è un piano.
Non un sospetto, non una voce: un piano scritto, firmato, dichiarato. Controfirmato, convalidato, vidimato. In diretta. In conferenza stampa. Votato in parlamento a maggioranza.
Lo vediamo accadere, ora, durante queste righe.
I responsabili parlano davanti alle telecamere. Rivendicano. Promettono altri morti.
I numeri scorrono sugli schermi come risultati sportivi.
Madri che urlano.

C’è una bambina, coi capelli arruffati e il sangue sulla bocca. C’è un ragazzo che cerca il fratello sotto un cumulo di cemento. C’è un padre con un sacco nero in braccio, che non vuole lasciarlo andare. Un ragazzino – avrà otto anni – deve riconoscere madre, padre e due fratelli, stesi a terra, in sacche bianche.
Questa è la realtà.
Non nei libri di storia.
Oggi. Ora. Online.
L’orfano conta i brandelli di carni sparse, pezzo per pezzo, tra le urla e la polvere. Non è rimasto nessuno. Né una madre, né un padre, non una sorella o un fratello.
Seduto per ore accanto ai corpi dei genitori avvolti nei sudari. Senza sapere dove andare.
Vaga in silenzio tra le tende dei campi sfollati.
Orfani che non parlano più. Che non piangono più. Che fissano il vuoto con lo sguardo spaccato.
C’è una bambina sotto un tavolo. È viva, ma non dice il suo nome. Non parla da giorni. L’unica cosa che fa è stringere una scarpa da donna tra le mani.
Alcuni sono sopravvissuti a più bombardamenti, a più evacuazioni, a più morti.
Uno ha detto: «Ho seppellito mio padre, poi mio fratello, poi mia madre. Ora non voglio più dormire, perché sogno le bombe».
Nelle scuole trasformate in rifugi, si rannicchiano uno accanto all’altro come soldatini abbandonati, col nome scritto a pennarello sulle braccia, nel caso vengano colpiti di notte.
Nessuno viene a cercarli. Perché non è rimasto nessuno.
Da settimane, ogni accesso è stato bloccato. Senza vie di fuga. Le pattuglie e i carri armati presidiano ogni metro.
L’assedio è totale. E deliberato. Tutti gli accessi chiusi: terra, mare, cielo.
I valichi controllati militarmente. Nessuno entra. Nessuno esce. Nemmeno l’aria. Se potessero sigillarla, la fermerebbero. Nessun convoglio umanitario entra.
I cecchini sono appostati sulle torrette ai valichi, coi mirini ottici montati su fucili IWI Tavor X95.
Da mesi non entra carburante. Non entra elettricità. Non entra acqua potabile. Non entra la speranza.
I depuratori sono fuori uso. Le pompe non funzionano. La popolazione – più di due milioni di persone – beve acqua salmastra contaminata da liquami fognari. Si moltiplicano le infezioni intestinali. I bambini muoiono di dissenteria.
Le madri bollono acqua nei coperchi di latta su fuochi improvvisati: legna di mobili distrutti, pezzi di finestre, libri. Quel che resta del letto matrimoniale di una coppia di innamorati dati per “dispersi”. Due anni fa si è festeggiato il loro matrimonio. È da sei mesi che non si hanno loro notizie. L’acqua arriva in taniche, quando arriva. Razionata a meno di un litro a testa.
Nessuna corrente, nessun rifornimento. Razioni alimentari sotto le 800 calorie al giorno a persona, e meno di 500 in alcune zone, l’equivalente di un piccolo panino secco o un pugno di riso.
Farina razionata al grammo. Il riso si pesa col cucchiaino.
Si mangiano fiori secchi, carta, erba.
Il cibo è finito.
Centinaia di migliaia di famiglie sopravvivono con pane fatto con acqua sporca e forni di fortuna. Farina coi vermi.
Le scorte sono assaltate al valico dai coloni. I coloni assaltano le case e le terre. I camion vengono bloccati. I convogli bombardati.
I magazzini distrutti. I sacchi di farina presi d’assalto.
La fame non è una conseguenza. È una strategia.
Gli ospedali non esistono più.
Bombardati, uno dopo l’altro.
Ospedali pediatrici, ambulanze, centri medici: ridotti in crateri, scheletri anneriti, cumuli di ferraglia.
Gli ospedali non esistono più. Colpiti metodicamente, uno dopo l’altro: il Nasser, l’Al-Shifa, l’Al-Quds, il Kamal Adwan, l’Indonesian Hospital.
Ogni struttura sanitaria a Gaza è diventata un bersaglio.
I chirurghi operano sul pavimento. Senza anestesia. Con torce a batteria.
I reparti pediatrici sono diventati obitori.
Le sale operatorie rifugi scavati sottoterra, coperte da teli.
I pazienti muoiono dissanguati, mancano le sacche di sangue.
I neonati prematuri muoiono per freddo, disidratazione, setticemia.
Le donne partoriscono tra le rovine. I neonati nascono prematuri e muoiono nelle incubatrici spente.
I lamenti dei sopravvissuti sono un coro di agonia, un mormorio che sale dalle cantine, dai rifugi, dagli scantinati trasformati in sale parto improvvisate.
Non c’è ossigeno. Non ci sono ostetriche. Non si respira.
Quattro neonati nello stesso lettino nel tentativo di tenerli caldi. Sono morti uno dopo l’altro. Senza nome. Senza certificato. Senza funerale.
L’odore della morte riempie i corridoi.
Mescolato al fumo della carne bruciata. Alla muffa.
Le madri piangono in silenzio, sedute accanto a neonati avvolti in lenzuola sporche, in attesa di una cerimonia. Ma i cimiteri sono pieni e i morti vengono sepolti nei giardini degli ospedali.
Partorire è una disperazione.
Ogni nascita è un addio.
I video li mostrano. Puoi vedere i medici che massaggiano quei corpi inerti a mani nude per stimolare la respirazione, senza ossigeno, senza termocoperte. Solo le mani nude e la disperazione.
I medicinali non esistono più.
Gli antibiotici sono finiti da mesi. Le ferite si infettano. I tagli si gonfiano, pulsano. Le cancrene si allargano, nere. Le garze si lavano e si riutilizzano. Gli ospedali bombardati. Restano i loculi: letti sfondati, corsie piene di sangue rappreso. Le mosche si posano sui bendaggi.
Dissenteria, febbre alta, convulsioni.
I medici rimasti intervengono rimestando le carni lacere senza anestesia, i chirurghi operano senza anestesia, si estraggono schegge dal petto senza anestesia, si muore senza anestesia. Con bisturi sterilizzati sul fuoco. Con acqua piovana in bottiglie rotte, senza antibiotici.
Si usano lame da cucina, pinze arrugginite, garze riutilizzate.
Si tagliano gambe in cancrena con seghe manuali. Senza anestesia.
Si amputano bambini sotto i 10 anni senza anestesia, con solo una dose di paracetamolo.
Le ambulanze non riescono a raggiungere i feriti: vengono colpite prima di arrivare.
Il sangue è finito. Le sacche sono esaurite da settimane. I medici costretti a scegliere chi salvare e chi lasciar morire.
La sala operatoria è senza corrente, illuminata da torce tenute in bocca o attaccate con nastro adesivo al soffitto.
Le ferite non si rimarginano: si infettano, si infiammano, puzzano di morte. Non c’è acqua per lavarle. Non c’è tempo per suturare.
Amputare, operare, ricucire. In fretta. Senza anestesia.
I corridoi son corpi coperti da lenzuola, e altri che aspettano il proprio turno per morire.
I bambini urlano “Mamma” mentre le madri vengono cucite vive, senza anestesia. L’ultima goccia di morfina è finita dopo l’ennesimo bombardamento, già un anno fa.
I bambini urlano “Mamma” mentre le madri giacciono loro accanto, morte. Non piangono più.
I bambini non piangono più.
Non urlano più, ora hanno persino smesso di chiamare la mamma, non si lamentano. Restano in silenzio, con gli occhi spalancati e fissi, la paura ha cancellato ogni altra emozione.
Molti di loro non parlano da settimane. Hanno smesso. Perché hanno capito che il rumore attira le bombe.
Il silenzio è l’unico riflesso di sopravvivenza che resta.
Alcuni si urinano addosso ogni volta che sentono un rumore forte.
Altri non riescono più a dormire: tremano la notte, rannicchiati accanto a genitori che non possono proteggerli. Tremano nel sonno, tremano al risveglio, tremano.
Nei disegni che fanno, nel mutismo dei rifugi, non ci sono case né alberi: solo aerei, fiamme e corpi. Corpi dilaniati nello strazio. Lo spasmo. Senza anestesia. I colori dominanti sono il nero, il rosso e il grigio. Non conoscono più la differenza tra sogno e incubo. Ogni volta che chiudono gli occhi, vedono macerie. Corpi dilaniati che urlano. Dolore senza anestesia. 
Molti hanno assistito all’uccisione di genitori, fratelli, amici. Hanno imparato a riconoscere il tipo di missile dal rumore che fa. Sanno distinguere una bomba a penetrazione profonda da una termobarica.
A sei anni.
Sanno l’odore della morte. Della putrefazione. Delle grida, delle carni lacere. Dell’infanzia finita, bruciata viva sotto le bombe. Morta anche la fiducia nel mondo, l’illusione della sicurezza, il diritto a sognare. Senza anestesia.
Alcuni bambini sono stati trovati vivi sotto le macerie, accanto ai cadaveri in decomposizione dei propri familiari, dopo giorni senza cibo né acqua. Quando li tirano fuori, non reagiscono. Non piangono. Non urlano. Hanno solo fame. E un silenzio che fa più paura delle esplosioni.
E tutto questo – e il resto che sta oltre ciò che la secchezza dell’orrore permette di nominare –, non accade una volta, una notte, una settimana.
Accade da mesi e mesi.
Nel silenzio della comunità internazionale.
Sotto gli occhi delle telecamere.
Dentro i comunicati che parlano di “danni collaterali”.
Le ambulanze vengono attaccate, assaltate, bombardate, con simboli della Mezzaluna Rossa ben visibili. In molti casi, i soccorritori sono uccisi mentre recuperano bambini ancora vivi sotto le macerie o trucidati dopo un inseguimento.
I cadaveri non si contano più.
Si decompongono nei sottoscala. Il loro odore è ovunque. Odore di Gaza martoriata, odore di Gaza dimenticata, odore di Gaza da cui si distoglie lo sguardo, odore di Gaza in cui si fissa l’orrore in diretta. Senza anestesia.
È un laboratorio del male.
Un esperimento di soffocamento in tempo reale. Una prigione a cielo aperto.
Un mattatoio chiuso ermeticamente.
I rifugi non sono sicuri.
Le scuole sono state colpite. Le chiese colpite. Moschee colpite e fatte detonare. Le tende colpite.
Le mappe delle “safe zones” vengono annunciate – e poi attaccate.
La popolazione si sposta a piedi, per chilometri sotto i droni, tra le macerie e i corpi.
Chi scappa viene bombardato. Chi resta viene bombardato.
Camminano con le mani alzate, sventolando stracci bianchi, coi bambini sulle spalle e i vecchi su carretti rotti.
E chi scappa viene bombardato. E chi resta viene bombardato.
Non c’è scelta: solo una direzione, e in ogni direzione la stessa fine.
Ogni zona è una trappola.
Il sole scioglie l’asfalto e fa marcire i corpi insepolti ai bordi della strada.
Nessun tetto, nessun rifugio. Solo sabbia, polvere e bersagli in movimento.
È un esodo verso il nulla. Un trasferimento forzato di massa verso il prossimo cratere. Tra una fossa comune e l’altra.
Ogni corridoio umanitario è un corridoio di morte.
I corpi sono ovunque.
Sotto le macerie. Sulle strade. Negli ospedali. In sacchi di plastica.
Non ci sono più numeri. Ci sono solo resti.
Corpi senza testa. Corpi di bambini senza nome.
Si scavano altre fosse comuni con pale prese in prestito. Si seppelliscono figli e madri in file anonime.
I cani tornano a girare in branco, attratti dall’odore della decomposizione.
Migliaia di uomini, donne, bambini cancellati sistematicamente. Col progetto annunciato di una deportazione definitiva. Torturati in carceri militari. Annientati nell’anima e nel corpo.
Ed è parte di un piano dichiarato, non di un “effetto collaterale”.
Il Genocidio in corso non è nascosto. Non è segreto. È accessibile. Iper-documentato. Ogni giorno, ogni ora. Ci sono le prove. I video. I registri. Le urla. Abbiamo tutto. C’è persino un verdetto della Corte Penale Internazionale: due mandati d’arresto per crimini di guerra e crimini contro l’umanità.
Privazione intenzionale e consapevole della popolazione civile di Gaza di beni indispensabili alla sopravvivenza, tra cui cibo, acqua, medicinali, carburante ed elettricità. Omicidio, persecuzione e altri atti inumani, nell’ambito di un attacco diffuso e sistematico contro la popolazione civile.
Eppure, nulla.
L’umanità si distrae.
Scrolla.
Si indigna per 15 secondi, poi passa oltre.
L’hashtag #AllEyesonRafah in tendenza il lunedì sera e scomparso il martedì mattina, sembra un evento preistorico, e Rafah nel frattempo è stata rasa al suolo.
I leader mondiali fanno dichiarazioni vibranti mentre firmano accordi commerciali con lo stesso regime dell’orrore. Fornendo armi e “componentistica”. Si tratta solo di “componentistica”, dicono con la voce di Pilato.
I giornali – con rarissime, solitarie eccezioni – non indagano, non gridano, non pretendono. Pubblicano versioni ufficiali, banalizzano le testimonianze, relativizzano la strage.
Le prime pagine aprono su gossip, sport, elezioni locali.
Il Genocidio? A pagina 18, accanto alla pubblicità di un’automobile. E i talk show non ne discutono, e se lo fanno è per dire che si tratta di un “conflitto controverso”, che è “complicato”, dando più spazio ai carnefici che alle vittime. La verità esiste, ma non vende. La menzogna, sì. E la propaganda per i “nostri alleati” è più preziosa di qualsiasi dignità istituzionale.
 Alcuni arrivano perfino a giustificare, in nome della Realpolitik, del mercato, della “stabilità della regione”, del “diritto sacrosanto”, delle fiabe bibliche. Della democrazia del Medio-Oriente. Della democrazia in cui si vota il genocidio a maggioranza. 
I governi “analizzano la situazione”. Le cosiddette democrazie, paralizzate dal proprio cinismo, se ne lavano le mani con comunicati stampa. E l’algoritmo applaude.
Non possiamo dire “non lo sapevamo”.
Lo sappiamo. Lo vediamo. Lo condividiamo.
E restiamo a guardare.
E quando ci chiederanno dov’eravamo nel 1944, dovremo rispondere: “Ero online. E non ho fatto nulla”.
Non possiamo dire “non lo sapevamo”.
Lo sappiamo. Lo vediamo.
E un giorno ci chiederanno: dov’eravate mentre succedeva tutto questo?
E la risposta sarà la stessa: “Ero online. E non ho fatto nulla”.

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